Relief slab with mask of Gorgon from the Belvedere Temple in Orvieto.
Orvieto, Claudio Faina Archaeological Museum.
Terracotta.
Altezza max 28,2, (dai capelli al mento 26), larghezza max 32, spessore della lastra di fondo 2,5/3, aggetto max del rilievo 6.
Da Orvieto, tempio del Belvedere.
Orvieto Museo Civico, inv. 1346.
Gerhard, 1831, 7, n. 4; Andrén, 1940, I, 178 s., II: 29, II, tav. 68, 219; Klakowicz, 1972, 4, 117, n. 5; Roncalli, 1980, 79 ss.; Strazzulla, in Firenze 1985, 377, n. 27.
Restaurato in occasione della mostra da A. Scaleggi.
Terracotta compatta, rosea, abbondantemente smagrita da inclusi ghiaiosi e micacei. Sul retro, lungo l’intero margine inferiore, traccia del distacco netto di un dente di 5 centimetri di spessore che se ne dipartiva ad angolo e, al centro della parte alta, di un montante di aggancio di sezione oblunga, verticale. La lastra di fondo è spezzata e mancante sul lato sinistro ed inferiore destro, mentre i danni del modellato della maschera interessano solo la serie dei serpentelli sui capelli, e la punta del naso.
La delicata pulitura recente ha sorprendentemente restituito al rilievo, le cui qualità plastiche erano le sole leggibili finora, il supporto della ricchissima policromia originale, interamente nascosta da incrostazioni.
L’interpretazione del gorgoneion “u-manizzato”, ma pur sempre orripilante, sostanziata nel naturalistico muoversi dell’epidermide sui muscoli contratti nella smorfia e sulla struttura ossea, si prolunga con sorprendente coerenza nel femmineo incarnato roseo dalle lumeggiature sanguigne sparse sulle protuberanze del modellato (zigomi, fronte). Ciglia e sopracciglia sono ripercorse da dense pennellate nero brune; il rosso cinabro dei capelli ritorna, forse sovradipinto al nero (!), nelle iridi contornate di nero, conferendo allo sguardo una vivacità cupa, in vivido contrasto con il rosso infuocato di labbra, gengive e lingua che accende la smorfia ripugnante della bocca intorno a denti e zanne. Osserviamo infine come, nella nuova levigatezza recuperata dalle superfici, emerga ancor più evidente il contrasto fra i più profondi ma morbidi intagli, del tutto organici al modellato, realizzati a stecca attorno al naso ed agli occhi, e le epidermiche e grezze incisioni, in cui l’argilla si raggruma ai lati del solco, tracciate sulla fronte ed attorno alle iridi. Sui capelli, i serpentelli gialloscuri picchiettati di nero si stagliano contro i lembi della lastra di fondo, come di consueto, nera.
Nel quadro generale dell’arte figurativa etrusca di destinazione templare d’età classica, ed in quello più particolare della produzione volsiniese e del ciclo del Belvedere, questa maschera gorgònica, che per intensità non trova confronto che nella versione arcaica del tempio del Portonaccio di Veio, denuncia con chiarezza ineguagliata la matrice attica, fidiaca dell’invenzione, per la quale possiamo pensare al gorgoneion centrale dello scudo della Parthenos. La lezione stilistica attinta con precisa determinazione all’Atene periclea doveva diventare a Volsinii, tra V e IV sec. a. C., vettore di messaggi ideologici di prestigio e primato politico, non meno del verosimile soggetto rappresentanto nel frontone del tempio (Strazzulla, in Firenze 1985) entro cui la maschera veniva a collocarsi.
La natura delle tracce di frattura sul retro, la totale assenza sia di fori passanti che di fori per l’inserimento di menischi, inducono a ritenere che l’altorilievo fosse saldato, lungo la linea di base, ad una lastra retrostante formante con esso un angolo acuto, a sua volta inchiodata alla testata del trave di colmareccio, così da far apparire il rilievo stesso leggermente inclinato verso il basso, al sommo del vano frontonale (soluzione non dissimile da quella proposta nella scheda precedente da S. Stopponi per l’acroterio da Piazza Buzi). La piena visibilità dal basso è confermata dalla finitezza dell’intero margine inferiore, dal mento della Gòrgone allo spessore della lastra di fondo, tinteggiata in color crema e rigata di tracce rosse, forse non casuali (un meandro?).
Una tale collocazione, che ritornerà nell’esemplare, tipologicamente derivato da questo, del santuario di Cannicela, pur con soluzioni tecniche diverse (Stopponi, in Budapest-Cracovia 1989, 90), non è equiparabile, a livello di significato, alla ripetitività delle antefisse di uguale soggetto. Ben più pregnante doveva essere l’incidenza di questa immagine nel contesto della scenografia del frontone, sia che essa ne connotasse in senso ctonia il “luogo” ideale, sia che si radicasse, in senso più lato, nella natura ctonia del culto prestato nel santuario di Tinia calusna (Stopponi, in Arezzo 1985, 83; Roncalli, 1985, 60).