Origin:
According to Pirro Ligorio, the statue was found in Rome, near the Trajan Baths, inside the vineyard of Bishop of Viterbo, Sebastiano Gualtieri. It immediately became part of the prelate’s collection and in 1566, it was bought by Alfonso d’Este. In 1575 it was sold to Ferdinando de’ Medici, who decided to export it to the collection of antiquities at Villa Medici in Rome. The statue was kept in the sumptuous Roman residence for over a century. In 1677, it was moved to Florence, together with masterpieces such as the Knife Grinder and the Wrestlers. These famous works were exhibited in the Tribuna, the most precious space of the Uffizi, and the Venus was elevated to symbolic representation of the Florentine museum in its entirety. The prestige of the statue can be seen in subsequent events and the successive collecting history. In 1802, Napoleon ordered the transfer of the statue to Paris. The French period lasted until 1816, when the statue was relocated back to its original location in Florence.
Description:
45. Statua di Afrodite detta «Venere dei Medici» (inv. n. 224).
Marmo greco: alt. m. 1,53 (senza base).
La statua è sostanzialmente integra nelle parti principali; la testa è riapplicata, ma sicuramente pertinente, della base è rifatta la parte marginale davanti e ai lati; di sicuro restauro moderno soltanto il braccio destro dall’ascella e il sinistro dal gomito, perchè la parte superiore del sinistro con l’incavo dell’armilla è certamente antico e pertinente. La frattura a metà del busto è risarcita con un tassello sotto il seno destro, per il resto i pezzi combaciano senza soluzione di continuità; altra frattura a metà delle coscie è risarcita con un tassello nella parte anteriore della destra, per il resto con un piccolo strato di mastice a caldo; la gamba destra sotto il ginocchio presenta due fratture, a metà della tibia e al malleolo, e i pezzi sono riapplicati senza soluzione; la sinistra è tutto un pezzo con la parte mediana del tronco d’appoggio e presenta fratture sotto il ginocchio e al malleolo; la parte anteriore del piede destro e tutto il sinistro sono uniti alla base. Sicuro è anche l’attacco alla parte antica della base del tronco d’appoggio e del delfino. Il tronco nella estremità superiore è unito alla coscia sinistra mediante mastice a caldo. Non vi è ragione di ritenere supplita la gamba destra, il cui colore differisce dal resto soltanto perchè la patina antica è stata asportata. Nella testa è supplita soltanto la punta del naso. In sostanza il Dütschke e l’Amelung hanno dato dei restauri una recensione esatta. Nel delfino sono supplite la coda e la pinna anteriore sinistra; nell’erote superiore la gamba sinistra e le ali; le teste dei due eroti sono piuttosto consunte. Tutta la superficie della statua, meno che nel volto e nei capelli, è stata levigata, conservata invece la superficie originale negli eroti. Il Reinach1 ha messo in dubbio la pertinenza della parte inferiore dalla frattura delle coscie in giù e del braccio sinistro per potere identificare la statua in quella riprodotta nel disegno di Pierre Jacques, citato più oltre, perciò sarebbero di restauro anche il doppio appoggio, il delfino con i putti e l’albero, entrambi chiaramente antichi. Dopo il trasporto a Firenze (v. più oltre) le mani sono state restaurate da E. Ferrata2. Che la statua abbia sofferto nel trasporto, cosa ovvia data la sua delicatezza, è attestato dal Sandrart3, il quale precisa che si ruppe in nove pezzi; la notizia di questi danni è ripresa dal Richardson. Danni meno gravi, consistenti soltanto nell’allentamento dei perni e sconnessione fra le superfici di contatto, si verificarono durante il trasporto prima a Palermo, poi a Parigi e di nuovo a Firenze, in conseguenza dell’asportazione napoleonica, tali danni furono riparati al rientro della statua a Firenze4. Il Visconti parla anche di smontaggio della base durante la permanenza al Musée Napoléon. Il primo ad accorgersi del restauro delle braccia pare sia stato il Cochin5, seguito da A. Maffei; quest’ultimo ha attribuito all’Afrodite Medici p.70 la notizia riferita invece all’Afrodite già Palmieri-Bolognini (n. 65) del ritrovamento delle braccia originali.
Il luogo di rinvenimento della statua e la storia di essa anteriore alla sua presenza a Villa Medici ci sono praticamente ignote. Le due tradizioni, del ritrovamento nella zona del Pantheon (Sandrart6) e al Portico di Ottavia (Bartoli7) sono probabilmente, come ha visto il Michaelis, una reminiscenza dotta di Plin., NH, XXXVI, 35; la notizia è confutata anche dal Lanciani8. Altre notizie, della provenienza cioè da Tivoli (Bianchi) o dagli Horti Neronis in Roma (Gori) non sono documentate. Nessun valore hanno di conseguenza i riferimenti più recenti, tutti derivati da una o dall’altra delle citate fonti. L’opinione che ha avuto maggior seguito è quella dell’origine dal Portico di Ottavia (Clarac, Dellaway, Friederichs, Hirschfeld). Non meno incerte le vicende della statua prima dell’ingresso nella collezione Medici. Il Pelli per primo9 ha espresso l’ipotesi che l’Afrodite Medici possa essere riconosciuta nella «Venere di naturale con tutti i suoi membri, con il delfino» dell’Inventario Capranica—Valle10, statua descritta dall’Aldrovandi11, come facente parte dell’antica collezione Valle; nè l’Inventario, nè l’Aldrovandi menzionano però gli eroti sul delfino, ma questi potrebbero anche esser sfuggiti per la loro piccolezza. Ad ogni modo l’unico argomento valido per sostenere la provenienza Valle è il fatto che non si ha notizia di marmi di questa collezione passati altrove che alla Villa Medici. Ha difeso l’identificazione con l’Afrodite Valle il Reinach12, per sostenere l’antichità del solo torso e quindi la modernità della parte inferiore e dell’iscrizione; ma il disegno di Pierre Jacques non riproduce un frammento, ma soltanto isola la parte superiore della statua13, come in altro disegno14 ha isolata la testa; quindi il ragionamento capzioso del Reinach appare privo di base e d’altra parte, mancando la parte inferiore, il riconoscimento sicuro della statua è impossibile. Da respingere l’identificazione con la Venere descritta dal Boissard15 perchè si tratta evidentemente di un frammento (Lanzi, Wicar). In sostanza la provenienza dalla raccolta Valle può essere sostenuta in base agli accenni dell’Inventario e dell’Aldrovandi e allo schizzo di Pierre Jacques, ma senza assoluta certezza e non è da respingere, come ha fatto il Reinach, l’affermazione del Michaelis16 secondo cui la più antica riproduzione sicura è quella del Perrier, del 1638. La didascalia alle tavv. 81—83 del Perrier è anche la prima notizia sicura della collocazione della statua a Villa Medici. Il Gori e il Tiraboschi17 riferiscono che la statua fu acquistata dal card. Ferdinando18, senza peraltro far cenno della provenienza Valle. Discussa anche la data del trasferimento a Firenze. Il Perrier dà ancora la statua a Villa Medici e così il Dati19, cfr. Kinkel20, ma il Sandrart avverte che, all’atto della stesura del suo lavoro, la Venere era a Firenze da poco tempo a precisamente dal 1677. Il Pelli21 non precisa la data, ma allude però al pontificato di Innocenzo XI e al granducato di Cosimo III, il quale avrebbe levato la statua da Villa Medici per preoccupazioni moralistiche22; il 1680 è indicato dal Maffei23. Il 1770 è indicato dal Friederichs in seguito evidentemente ad una svista. La statua, una volta a Firenze, stette sempre nella Tribuna (Gori, Bianchi, Lanzi), donde fu tolta soltanto durante il periodo napoleonico. In seguito all’abbandono della Toscana e al ritiro in Sicilia della dinastia lorenese, con altri marmi della Galleria fu spedita a Livorno e quindi a Palermo, ma la cessione di questa, unica fra le sculture degli Uffizi, fu imposta nel 1802 p.71 da Napoleone, in seguito a che la statua fu trasferita a Parigi e figurò al Musée Napoléon fino al Congresso di Vienna. Nel 1816 fu restituita definitivamente alla Galleria e ricollocata nella Tribuna. Alla storia esterna della statua va aggiunta l’esecuzione della replica in bronzo fusa dai Keller nel 1687 per il re Luigi XIV ed ora al Louvre; il David cita un calco in gesso di proprietà Galitzin, conservato al tempo suo all’Aja e lo riferisce congetturalmente alla serie dei calchi fatti eseguire in Italia dal re Francesco I, ma non si ha di ciò alcuna prova.
All’esame critico della Venere de’ Medici va premesso il problema che riguarda la firma dell’artista, Kleomenes, figlio di Apollodoro, di Atene, incisa nella parte anteriore della base. Il Löwy24 ha riportato e discusso in modo esauriente i dati e i termini della questione e la sua trattazione resta ancora definitiva. Nella pubblicazione di P. A. Maffei—De Rossi, l’incisione a tav. XXVII reca ΔΙΟΜΗΔΗϹ in luogo di ΚΛΕΟΜΕΝΗϹ nella firma che figura sul lato sinistro della base, la quale presenta la sagomatura attuale; ma nel testo si avverte (p. 28) che lo scambio del nome è una svista dell’incisore e si indica la versione più nota. Secondo il testo alle incisioni del David la versione ΔΙΟΜΗΔΗϹ si troverebbe nel calco Galitzin, non incisa, ma presa nel calco; invece la forma più nota della firma, salvo varianti secondarie, si legge nella replica Keller del Louvre. Il primo a proporre il dubbio sull’autenticità è stato il Gori, seguito in ciò dal Pelli e, con più vigore dal Lanzi; la falsità dell’iscrizione è stata comunemente sostenuta fino a che E. Q. Visconti non espresse l’ipotesi di una copia dell’iscrizione antica, andata perduta nel restauro della base. Questa che è, in fondo, la tesi più logica ed accettabile, ha riaccese le discussioni e dal Visconti in poi gli studiosi sono stati divisi, a questo proposito, in due ben distinte correnti: hanno sostenuto la falsità dell’iscrizione il Michaelis25, il Collignon, il Löwy, il Reinach per le ragioni già esposte, il Dütschke, il Mitchell; ha difeso l’autenticità invece il Rayet e dello stesso avviso sono stati l’Overbeck26 e gli editori del C. I. G. e, delle I. G., incerto Amelung. Argomento principale per negare la tesi del Visconti è stato il silenzio delle fonti più antiche sulla firma, su cui si è fondato massimamente il Reinach, poi l’accenno ad attribuzioni, già nel sec. XVII, che della firma non hanno tenuto conto. Contro la tesi dell’invenzione erudita resta sempre valida la posizione del Visconti, secondo cui si sarebbe inventata la firma di un artista noto dell’antichità, non di uno affatto sconosciuto all’erudizione del tempo. Diffìcilmente sostenibile sembra anche la tesi del Reinach27 di una base con iscrizione di Cleomene, su cui la statua, sarebbe stata casualmente appoggiata, senza rapporto di pertinenza. L’ammissione della autenticità originaria della firma comproverebbe la data della copia, in quanto Cleomene di Apollodoro è da porsi nella prima metà del I secolo a. C. Che si tratti di una copia è comunemente ammesso, con qualche eccezione sporadica. Ovviamente prima della fine del sec. XVIII si considerava la Venere de’ Medici un originale. Scartata la possibilità di un’identificazione con la Cnidia da parte del Boissard, poiché il torso Carpi da lui menzionato non può esser tutt’uno con questa Afrodite, resta da considerare l’attribuzione a Fidia da parte del Sandrart28. «Venus Lieb Göttin in Garten deren von Medices, Werk von Phidias»; da mettere in relazione con il citato passo pliniano che ha anche suggerito la tradizione del ritrovamento nelle Terme di Agrippa. Più tardi il Gori, evidentemente ancora su traccia pliniana, ha avanzato il nome di Skopas, ripreso dal David (p. 69), certo per riflesso del Gori. In seguito il problema della Venere de’ Medici esce dall’erudizione per entrare nel campo scientifico dell’archeologia moderna. Negli studiosi del passato e di questo secolo si nota in proposito una sostanziale convergenza: dopo il Brunn29, che si è soffermato soprattutto sulla p.72 cronologia di Kleomenes, riferendolo congetturalmente all’età di Augusto, e lo Stark30 che per la presenza del delfino ha fatto una generica classificazione alla «età alessandrina», il Furtwängler31 ha impostato in modo pressoché definitivo i termini della questione, attribuendo l’originale ai figli stessi o agli immediati continuatori di Prassitele, attraverso il confronto con la testa Pethworth e avvertendo già le differenze rispetto alla Cnidia, nel senso della grazia e della civetteria. Il Michaelis32 ha confrontato la Medici con l’Afrodite Leconfield, senza spostare quindi sensibilmente i termini posti dal Furtwängler; il Mitchell33 considera la Medici una copia tarda della Cnidia, poi l’Amelung ha pensato ad una variante della Cnidia, richiamando l’attenzione sulla sveltezza delle proporzioni e sull’autonomia della figura sotto il rapporto spaziale (per l’assenza di legame con l’appoggio laterale, che distingue la Cnidia) e riprendendo il confronto con la testa Pethworth, considerata un originale dell’estremo della vita di Prassitele; la copia è per l’Amelung certamente greca. Da questa consonanza sostanziale diverge soltanto lo Jamot (cit. infra), che ha pensato ad un’originale anteriore alla Cnidia, da riferire a Skopas. Poco dopo il Collignon34 ha di nuovo considerato la Medici come un derivato dalla Cnidia, allo stesso modo della Capitolina, nella nuova tipologia della pudica e ha supposto il riferimento a Cefisodoto e Timarco, mentre la copia in sé sarebbe da considerare del II—I secolo. Contemporaneamente il Klein35 ha distinto la Capitolina, che rappresenta un tipo a parte ed ha sviluppato il concetto dell’autonomia d’impianto, per l’assenza di legame con l’appoggio laterale, che distingue la Cnidia, e le osservazioni sul rendimento pittorico, mentre per la parte concettuale è aderente al Furtwängler, come, sostanzialmente, anche per la cronologia. A discendenza prassitelica, ma interpretata nelle forme lisippee ha pensato il Mahler (cit. infra). Non diverge dai precedenti il Winter che classifica l’opera nel primo ellenismo, nè il Bulle36, che ha spostato però la data alla seconda generazione dei prassitelici, mentre hanno mantenuto l’attribuzione ai figli di Prassitele o a discepoli diretti il Löwy e il Dickins in un primo momento37; in un secondo momento peraltro questo studioso38 ha pensato ad adattamento della Capitolina nel gusto neoattico del I secolo a. C. C. Albizzati ha confrontato la Medici con una testa del Lycabetto caratterizzata dal «non finito» dei capelli; il Wilkinson ha pensato ad una versione romana della Cnidia, in cui la coscienza di sé è diventata civetteria; così anche il Lechat39, che pone la Medici prima dell’Afrodite di Doidalses (v. n. 5). Il Curtius considera la Cnidia40 un precedente dell’Afrodite di Cirene, in cui vede una tradizione lisippea; l’Anti, ancora a proposito della Cirene, data la Medici entro la prima metà del III secolo. Ci si distacca così dal vincolo stretto alla tradizione prassitelica che era nella tradizione risalente al Furtwängler e si chiarisce il carattere di opera ellenistica. Analoga cronologia ha indicato il Lawrence e anche il Della Seta, che ha compiuto il più esauriente studio del nudo, mettendo in rilievo le sostanziali differenze rispetto alla Cnidia per l’anatomia, la struttura e la psicologia e riconoscendo nella Medici già un carattere decisamente ellenistico. Dopo di lui il Ducati è ritornato alla posizione del Furtwängler, rilevando però il carattere realistico. Più di recente il Muthmann, in base al tipo dell’appoggio, e al confronto con l’Augusto di Prima Porta ha datato la statua in età augustea, più precisamente all’ultima metà del I secolo a. C., senza discutere il problema dell’archetipo, tesi non valida in sé nemmeno per quanto riguarda la copia e troppo legata ad elementi esteriori, in quanto l’attributo del delfino, che nella statua di Prima Porta ricollega Augusto al capostipite divino della sua gens, è per ciò stesso da ritenere derivato da una tipologia comune e ormai consacrata di Afrodite41 p.73 La tesi del rapporto con la corrente prassitelica, l’ascendenza alla Cnidia e il legame con la Capitolina sono variamente ripresi dal Lippold42 che considera la Medici una Umbildung della Capitolina, da riportarsi al periodo 320—280 e con rapporti con creazioni postprassiteliche, come la testa Petworth; da M. Bieber43 che pensa al principio del III secolo, ad un lavoro contemporaneo all’attività a Coo di Cefisodoto e Timarco; ultimamente ancora dal Giglioli44 che indica la prima metà del III secolo rilevando rispetto alla Cnidia appesantimento delle forme, ricchezza chiaroscurale e spiccato pittoricismo. In definitiva quindi la critica si è orientata costantemente su alcuni punti fondamentali: la derivazione dall’invenzione prassitelica della Cnidia, l’impossibilità di pensare le due opere come contemporanee e quindi l’ammissione di una seriorità della Medici, limitata però ai primi decenni del sec. III. Un’attribuzione precisa ai soli artisti noti possibili, Cefisodoto e Timarco, sembra non sia sostenibile. L. Laurenzi ha puntualizzato la questione45: la Medici è più tarda della testa di Chio, i suoi caratteri distintivi sono il predominio degli effetti chiaroscurali nel nudo morbidissimo, nei rilievi delle chiome che esprimono la sofficità per via dello spezzettamento della luce; la femminilità è accentuata rispetto alla Cnidia, di cui però è distrutta la saldezza strutturale per esaltare le curve, come nel volto la tendenza alle forme minute e graziose ha dissolta l’interiorità facendo perdere il pensiero logico da cui era nata la statua di Prassitele. Di conseguenza la datazione al principio del III secolo è accettabile, perchè proprio in questo periodo si sono portati agli estremi sviluppi i presupposti del prassitelismo. Press’a poco alle stesse conclusioni è pervenuta B. M. Felletti Maj46, che ha compiuto anche una precisa rassegna delle copie, derivazioni e interferenze. Risulta da questa recensione che le Umbildungen prevalgono largamente sulle copie e che la sola Afrodite dell’Ermitage47 si può considerare sufficientemente vicina alla Medici, insieme con i torsi Berlin K 24648 e Woburn49, dal cui confronto si può concludere che la copia fiorentina offre le migliori garanzie di fedeltà al tipo originale e alle sue forme. All’opinione generale ha aderito anche Ch. Alexander (data intorno al 300), nei continui riferimenti alla Medici a proposito della statua di New York50, accettata da M. Bieber51, ma la cui sorprendente somiglianza alla Medici è di per sè motivo plausibile per dubitare dell’autenticità. La ricchezza del modellato originario è andata certamente attenuata nella copia accademica che abbiamo sott’occhio, realizzata da un attico nella prima metà del I secolo a. C. Cleomene di Apollodoro è probabilmente il padre del Cleomene di Cleomene che ha firmato il «Germanico» del Louvre52, databile per il tipo del ritratto al 50—40; è un copista che cerca riprodurre con la massima fedeltà i caratteri dell’originale, si può pensare, per una sorta di postumo ossequio alla creazione famosa della scuola attica da cui discende, portato per ciò stesso, come più tardi il figlio Cleomene, a sacrificare la propria personalità all’esattezza della riproduzione. La copia di Firenze è un prodotto di un’officina di copisti ateniesi, la cui attività è cosi strettamente legata all’estremo ellenismo (e che il primo ellenismo considera già classico) e alla formazione dell’arte romana.
Guido A. Mansuelli (1958)
1S. Reinach, Recherches nouvelles sur la «Venus» de Medicis, in: Mélanges Perrot: recueil de mémoires concernant l’archéologie classique, la littérature et l’histoire anciennes, Paris, 1903., p. 285—
289.
2G. Bencivenni già Pelli, Saggio istorico sulla reale Galleria di Firenze, I—III, Firenze, 1779, p. 290; A. Gotti, Le Gallerie e i Musei di Firenze, Firenze, 1872, p. 118.
3J. v. Sandrart, Teutsche Academie der edlen Bau- Bild- und Mahlerey-Künste, Nürnberg, 1675, Berlin, 1679, II, 2, p. 86.
4Archivio della Galleria degli Uffizi, XXXX, 1816, 12, 14, 48 c.
5Presso Pelli, l. c., p. 166.
6J. v. Sandrart, Sculpturae veteris admiranda, Norimbergae, 1680.
7P. S. Bartoli, Admiranda Romanae antiquitatis ac ueteris sculpturae uestigia, Romae, 1683.
8R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, Roma, 1902 e ss., III, p. 112.
9Pelli, l. c., p. 159.
10G. Fiorelli, Documenti inediti e per servire alla storia dei Musei italiani, Roma, 1878, IV, p. 79.
11U. Aldrovandi, Di tutte le statue antiche che per tutta Roma in diversi, luoghi … si veggono, in L. Fauno, Delle antichità della Città di Roma, Venezia, 1556, p. 206; cfr. S. Reinach, L’album de Pierre Jacques, Paris, 1901, p. 52, 3.
12Cenno in S. Reinach, L’album de Pierre Jacques, p. 124, a tav. 41 e 41 bis, svolgimento in Mélanges Perrot.
13S. Reinach, L’album de Pierre Jacques, tav. 41 bis.
14Ibid., tav. 41.
15J. J. Boissard, Antiquae statuae Urbis Romae, Frankfurt, 1597, p. 109.
16Archaeologische Zeitung, 1880, p. 13.
17Lettere italiane, VII, 1, p. 196.
18Cfr. anche Pelli, pp. 157—158.
19P. 185.
20Da Sandrart, Teutsche Academie der edlen Bau- Bild- und Mahlerey-Künste, II, 68.
21Pelli, l. c., p. 290.
22Pelli, II, p. 206, nota CXXXIII.
23Cfr. anche Reale Galleria di Firenze, Serie IV, Firenze 1840 e Gotti.
24E. Löwy, Inschriften griechischer Bildhauer, Leipzig, 1885, n. 513.
25Archaeologische Zeitung, 1880, cit.
26J. Overbeck, Die antiken Schriftquellen zur Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen, Leipzig, 1868.
27Reinach, Mélanges Perrot, cit.
28Sandrart, Teutsche Academie…
29H. Brunn, Geschichte der griechischen Künstler, Stuttgart, 1889, II, p. 382.
30Stark, Venusstatue.
31A. Furtwängler, Meisterwerke griechischer Skulptur, München, 1893, p. 643; cfr. A. Furtwängler, Masterpieces of Greek Sculpture, London, 1895, p. 345.
32A. Michaelis, Ancient Marbles in England, 1901, n. 73.
33L. Mitchell, A History of ancient Sculpture, London, 1883, p. 657.
34M. Collignon, La sculpture grecque, II, Paris, 1895, p. 639.
35W. Klein, Praxiteles, Leipzig, 1898, p. 376.
36H. Bulle, Der schöne Mensch, Altertum2, München, 1912, col. 339.
37Annual of British School at Athens, XXI, p. 6.
38G. Dickins, Hellenistic Sculpture, Oxford, 1920, p. 71.
39L. Lechat, Sculptures grecques antiques, Paris, 1925, p. 188.
40Die Antike, Zeitschrift für Kunst und Kultur des klassischen Altertums, Berlin, I, p. 53.
41Cfr. Milani, Strena Helbigiana, Lipsiae, 1900, cit. infra.
42G. Lippold, Griechische Plastik, München, 1950 (Handbuch der Archaeologie, III, 1), p. 312.
43M. Bieber, The Sculpture of Hellenistic Age, New York, 1955, p. 20.
44G. Q. Giglioli, Arte greca, I—II, Milano, 1955: II, p. 821.
45Arti Figurative, Roma, cit. infra.
46Arch Class., cit. infra.
47O. Waldhauer, Die antiken Skulpturen der Ermitage, III, Berlin, 1928, tav. X.
48Blümel, V, tavv. 64—65.
49Bernoulli, p. 228, n. 15.
50Bulletin of the Metropolitan Museum of Arts, New York, XI, 9, 1953, p. 241.
51M. Bieber, l. c.
52Mitteilungen des deutschen Archaeologischen Instituts, Römische Abteilung, München, L., 1935, p. 251.
Literature:
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S. Reinach, Recherches nouvelles sur la «Venus» de Medicis, in: Mélanges Perrot: recueil de mémoires concernant l’archéologie classique, la littérature et l’histoire anciennes, Paris, 1903., p. 285;
M. Collignon, La sculpture grecque, II, Paris, 1895, p. 639, fig. 335;
S. Reinach, L’album de Pierre Jacques, Paris, 1901, p. 124;
E. Löwy, Inschriften griechischer Bildhauer, Leipzig, 1885, n. 513 e p. 342;
R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, Roma, 1902 e ss., III, p. 112;
Vassalli, Nascita di Venere, Siena 1908, fig. 3;
H. Bulle, Der schöne Mensch, Altertum2, München, 1912, tav. 56, c. 339;
Ausonia, Rivista della Soc. italiana di Archeologia e Storia dell’arte, Roma, III, 1908;
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G. Dickins, in: Annual of British School at Athens, 1914, p. 6;
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Les antiquités du Musée de Mariemont, Bruxelles, 1952, G. 15.
Documenti:
citati nel testo;
inoltre:
1816, Archivio della Galleria degli Uffizi, XL, 12 (21 febbraio) verbale di riconsegna alla Galleria (28 dicembre 1815, deposito all’Accademia);
1818, Archivio della Galleria degli Uffizi, XLII (esecuzione di calco per il Reggente d’Ungheria);
1834, Archivio della Galleria degli Uffizi, LXVI (esecuzione di calco per A. Macpherson).
Disegni e incisioni:
Heemskerk (Michaelis, l. c.);
Pierre Jacques (Reinach, L’album de Pierre Jacques, l. c.);
Uffizi 5694—5697 (Gori, l. c.);
4559, di T. Arrighetti;
Maffei [Raccolta di statue antiche e moderne date in luce da I. de Rossi, con note di P. A. Maffei, Roma, 1704],
Gori,
Vascellini,
David [Le Musée de Florence ou collection etc. gravé par F. A. David, avec explanation de F. W. Muhl, Paris, 1798],
Episcopius 47—50 [J. de Bischop (Episcopius), Signorum veterum Icones, s. l., 1630];
Dalen 83—84 [C. Dalen, Statuae antiquae, App. a Episcopius, s. l. c. 1700],
Mongez-Wicar [Tableaux, Statues, Bas-reliefs etc. de la Galerie de Florence … dessinés par M. Wicar avec explanation de M. Mongez, Paris, 1782],
[G. B. Zannoni] Reale Galleria di Firenze, Serie IV, Firenze 1840,
Clarac, citt. [C. O. F. de Clarac, Musée de Sculpture, Paris, 1826—1832 e 1833—1847 (S. Reinach, Répertoire de la Statuaire grecque et romaine, I, Paris, 1916)].
Fot.:
Alinari 1332—1338;
Brogi 3149, 3150 a, b, c; 9731 a, b;
Bruckmann;
Sopraintendenza alle Gallerie, Firenze 51687, 52832, 102195, 102196.
Credits: